Naturale è brutto.

Il canone estetico, come ben sappiamo, è qualcosa di estremamente soggetto allo scorrere del tempo: gli anni passano e ciò che ieri ci sembrava bellissimo e ineguagliabile, domani sarà stravagante ed esagerato. Questo accade anche a me che, nonostante non abbia subito grossi cambiamenti con il passare del tempo, quando mi ritrovo nelle mani qualche vecchia foto non posso che soffermarmi con un risolino isterico su un particolare imbarazzante: le sopracciglia. Esatto, proprio le sopracciglia che oggi vengono abbandonate a se stesse, folte, naturali, ribelli, nei primi anni duemila dovevano essere rigorosamente sottili: un vero ‘must have’. Fortunatamente sono riuscita a non essere completamente alla moda, -ossia non le dimezzai del tutto, come invece fecero molte altre mie coetanee, costrette ora a ricorrere a metodi alternativi per poter essere al passo coi tempi (la ‘pratica’ più diffusa a cui si sottopongono le più è il microblading, un trattamento estetico simile al tatuaggio).

Per questo e altri motivi, mi ritrovo sufficientemente contrariata all’uso spropositato che si possa fare della chirurgia estetica al sol fine di soddisfare i suddetti canoni. Si, perché poi dimentichiamo completamente che essi cambiano col passare degli anni –rifletti attentamente sulla storia delle sopracciglia!– E con queste parole non cerco affatto di imbandire sviolinate sulla bellezza naturale, nel credere in sé stesso e robe simili; affatto, l’insicurezza fa parte dell’essere umano, anche quello che tutti vediamo essere al centro dei riflettori, perfetto e senza paure, in realtà nasconde sotto la maschera di perfezione la peggior insicurezza.

Anni fa –quasi 10 anni fa più o meno, quindi perdonate i ricordi sfocati-, lessi il mio primo –e in realtà unico, non perché non mi piacesse l’autore, anzi, probabilmente ripensandoci dovrei dare un’occhiata in libreria- romanzo di Chuck Palahniuk, Invisible Monsters. Non acquistai mai questo libro, ma lo presi in prestito dalla libreria della mia allora coinquilina e cara amica d’infanzia Pina. Lo tenni per me quasi un anno e, inizialmente, la lettura andava molto a rilento con lunghe o lunghissime pause anche di intere settimane. Probabilmente anche per questo motivo mi toccò leggerlo una seconda volta –anche perchè trovai molto ostica la sintassi utilizzata da Palahniuk, in un primo momento.Questo romanzo credo possa rappresentare l’apoteosi del mio articolo: potrebbe anche essere volgarmente sintetizzato in una massima sentita e risentita: l’apparenza inganna! Ebbene riassumo velocemente la trama o meglio il nocciolo del romanzo:

Invisible Monsters- Chuck Palahniuk

La protagonista, Shannon, è un’invidiabile modella dalla vita perfetta: una bellezza inarrivabile, un fidanzato perfetto, una migliore amica perfetta, un lavoro perfetto; tutto va per il meglio se non che un giorno si ritrova a perdere tutto, completamente tutto. A causa di un colpo di pistola ricevuto in pieno volto, si vede sfigurata: un mostro senza mandibola. Anzi, non solo lei non riesce a guardarsi allo specchio, ma sono soprattutto le persone che credeva fossero punti fermi a voltarle le spalle: il fidanzato l’abbandona, la migliore amica l’abbandona, il lavoro la abbandona. Shannon è sola, arrabbiata col mondo, arrabbiata con se stessa. Cresciuta in una società improntata sulle apparenze, Shannon riceveva attenzioni e appagamento in maniera del tutto proporzionale alla sua bellezza. E’ proprio per questo che perde tutto: persa la bellezza non le rimane nient’altro che disperazione, emarginazione sociale, abiezione: diventa un vero reietto. Paradossalmente Shannon riuscirà a ritrovare se stessa grazie alla guida di Brandy Alexander, una transgender a cui manca un ultimo step per essere completamente donna; un personaggio enigmatico, che ha passato tutta la vita a cercare se stessa affrontando pregiudizi, cattiverie e superficialità.

Un romanzo da un’attualità sconcertante. Un romanzo che porta in sé, dietro quella matassa combinata e confusa di parole, un messaggio così profondo e semplice. L’accettazione di sé stessi non è sempre un percorso privo di difficoltà; non sempre è immediata la conoscenza che si ha di noi stessi. Il romanzo ci pone davanti due personaggi che percorrono la strada verso l’accettazione e la conoscenza di se stessi in maniera totalmente diversa. Ma il messaggio è proprio questo: chiaro, diretto, semplice, esplicito.

Non è assolutamente corretto, normale, scontato che nel 2020 si debbano ancora affrontare questi discorsi; non è giusto che le ragazzine in una fragile e difficile età, qual è l’adolescenza, debbano confrontarsi con coetanee dai 9mila ‘followers’ che ostentano seni prosperosi che Pamela Anderson chi sei ormai, mega labbroni, ecc… E qui non si vuole annullare o appiattire il concetto di bello. Esistono le belle donne, esistono le belle foto; ma trovo totalmente ingiusto, scorretto, basso e perfino riprovevole utilizzare applicazione o programmi –vedi photoshop- per alterare il proprio aspetto. Perché finché esso giunge dalla semplice ragazzetta che lo fa per cercare l’approvazione sociale, è un campanello d’allarme, ma di per sé non comporta altri danni; quando queste applicazione vengono utilizzate dalle cosiddette fashionblogger, dalle icone della moda, questo diventa un danno per tutti coloro che le seguono. Vera alterazione della realtà. E non mi importa che mi si dica “e ma quello è il loro lavoro. E ma quelle campano così”, perché se devono essere pagate affinché illudano, affinché ingannino milioni di povere ragazze che passeranno una giovinezza a sentirsi brutte, inadeguate, non all’altezza, allora è sbagliato. Ma in realtà ad essere sbaglio è l’intero sistema.

E se per voi è normale la moda-reazione a catena che sta impazzando su Instagram, dove le fashionblogger mostrandosi umili e modeste pubblicano dei loro selfie “al naturale”, con didascalie profonde del tipo “ci vuole coraggio a pubblicare una foto senza photoshop” e pensate sia un gesto lodevole, sbagliate. Perché ripeto, il problema è di fondo, nel sistema. Noi ragazze normali troviamo sempre il coraggio di pubblicare selfie senza utilizzare photoshop, con la nostra insicurezza, con i nostri “faccio schifo in questa foto, ma vabbè…”, eppure nessuno viene a dirci “wow, siete da ammirare, che coraggio!”. Esistono persone, nel mondo della ‘normalità’ che combattono da anni con l’accettazione di se stessi, con la pelle rovinata da acne, col seno troppo piccolo, con qualche chilo in più, con le labbra poco carnose, con il lato B non abbastanza pronunciato. E allora se si vuol tanto decantare questa ‘solidarietà femminile’, questo ‘girl power’, perché non smettiamo di utilizzare applicazione che trasformano i nostri connotati? Perché le icone della moda devono necessariamente ingrandirsi il seno, lato b, labbra, stringere la vita? Allora tutte loro sono delle ‘Shannon’ che non apriranno gli occhi finché non succederà qualcosa che turbi la loro serenità. Parlano e straparlano di ‘body shaming’, fingono di combatterlo, quando sono proprio loro la vera ostentazione della perfezione,  dove tutto ciò che è diverso è sbagliato, brutto e inaccettabile.

Se si volesse veramente cambiare qualcosa, dovremmo iniziare a cambiare atteggiamento: basta foto in copertina di riviste autorevoli con volti angelici, perfetti, levigati, disegnati: è photoshop; impariamo ad accettarci, a conoscerci, a rispettarci e amarci. Smettiamola di inseguire dei tipi fissi e stereotipati di bellezza costruita. Abbiate il coraggio di essere voi stessi, sempre. Un giorno, quando la moda della plastica e del silicone (chirurgia estetica) saranno passate non sarà poi così facile ritornare alla ‘normalità’, come le mie sopracciglia.

E voi? Che idea avete a riguardo? Fatemi sapere. Un abbraccio amici!

Quello che volevo assomigliava sempre di più a quello che ero sempre stata allenata a volere. Quello che tutti vogliono.Dammi attenzione.Flash.Dammi bellezza.Flash.Dammi pace e felicità, una relazione d'amore,una casa perfetta.Flash.

The summer is magic!

Adoro l’estate per diversi motivi; in cima alla lista non può non esserci una scena idillica: un lido sulla spiaggia, addobbato con tutte le lucine che creano un’atmosfera d’intimità, candore e natale, un rosso tramonto mozzafiato che l’amata costa tirrenica sa regalarci e un’immancabile calice di buon vino bianco.

Questo per me è il massimo che si possa chiedere ad una giornata afosa di metà luglio. Un sogno affatto utopico, facilmente realizzabile anche tutte le sere; tuttavia nella corsa della vita non sempre si ha la capacità di assaporare a pieno momenti così lenti. Si, perché la scena che immagino io è staccare la spina, assentarsi, distendersi, è saper godere realmente del momento. Parole banali ma non scontate. D’estate la stragrande maggioranza delle persone vive con l’ansia delle ferie, organizzare viaggi, spostarsi, scappare, fare, fare e ancora fare. Capita anche a me: arrivare al venerdì sera e pensare con un soffio di dolenza “cavolo, non abbiamo organizzato nessuna giornata di mare per questo weekend, e adesso che si fa?”. Quell’estremo bisogno di dimostrare a qualcuno che anche noi sappiamo divertirci e vivere la nostra estate finisce per rovinarci ogni momento. E poi ci sono le serate. No, non puoi mancare al seratone in riva al mare! Il tuo gintonic dev’essere consumato lì, accompagnato da pessima musica –ma non siamo pesanti, i tormentoni estivi ci fan ballare tutti– e persone che vorresti evitare; ma che fai, d’estate non fai l’alba ogni sera? E il giorno dopo sensi di colpa e svarioni, ma devi darti una mossa perché ti aspettano gli amici per una giornata alla conquista della costa opposta: oggi si va sullo Ionio! Dopo un po’ inizia a calare la palpebra ma no, se non hai riposato sufficientemente in spiaggia, lascia che l’idea di sonno abbandoni il tuo corpo perché stasera è il compleanno di Francesca e beviamo una cosa tutti insieme. E se domani lavori non preoccuparti, tempo per riposarti ne avrai nella vita! Ma quindi quest’anno dove andrai in vacanza? Non hai ancora organizzato niente? E gli amici che propongono la Puglia, quelli che optano per la Sicilia, quelli che “io quest’anno mi godo tutta la Calabria”, o “ma un salto in Costiera, no?”. Dobbiamo organizzare il campeggio, dobbiamo organizzare la festa di compleanno, dobbiamo andare a provare quel nuovo ristorante, dobbiamo andare in quella spiaggetta bellissima vicino Reggio, “no ma quest’anno si va assolutamente all’isola di Dino!”. E così ancora per molto, ogni giorno e ogni sera -e finisco per prendere maledettamente per vera la frase di una canzone dei Coma Cose «La mia libertà è che se non mi va non esco», apparentemente banale ma è cosi-.

Dopo tutto questo, la frase iniziale sembra venir meno, ma no, adoro anche tutto questo. Quindi quel momento idillico col calice di vino diventa un episodio raro, e bisogna tenerselo stretto e concederselo ogni qualvolta se ne offra l’occasione. Si, perché d’estate la frenesia  e l’obbligo di ‘doversi riposare’ diventano vere e proprie chimere da afferrare.

Riomaggiore, estate 2019.

Ma adesso? Beh adesso pare che questo bisogno di riposo si sia affievolito; la gente vuol riversarsi nelle piazze, nelle spiagge, nei lidi, in qualsivoglia locale; la gente ha voglia di abbracci, vicinanze. La gente vuole pensare che tutto quello che si è vissuto negli ultimi mesi sia già un lontano ricordo, possibilmente solo un incubo. Tutto quello che stiamo vivendo oggi è dettato dall’incoscienza. Perché? Perché nessuno vorrebbe continuare a vivere in uno stato di paura, di allerta, di distanze, di mascherine, di protezioni, di preoccupazioni, però purtroppo è così. E se lo fai presente a qualcuno sei pesante. Il tormentone quest’anno non è Baby K o Amoroso, è ripetere in loop “non ce n’è Coviddiii!”. E così finisci per lasciarti trasportare dalla corrente –azione assolutamente ingiustificabile, perfino Dante condannò l’ignavia con la pena di dover correre dietro una bandieruola, continuamente punti e feriti da vespe e mosconi:«coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo
», il cui sangue viene succhiato via da fastidiosissimi vermi. E un po’ da pusillanime ci stiamo atteggiando tutti perché ‘tanto ormai…’ è diventato un mantra dei più, quella spinta che ci diamo e che ci permette di affrontare le realtà quotidiane. Quindi tanto vale riversarsi nei lidi, brindare col vicino di ombrellone, ballare al tramonto al ritmo di ‘Mama Africa’ che è tanto in voga e non pensare a nient’altro.

Salvata dalla pagina ‘Abolizione del suffragio universale’.

Che poi che terra splendida è l’Africa, così esotica, così wild; e che spettacolo la danza africana! Vorrei imparare qualche passo, ti trasmette una carica e un’energia pazzesca. Si però gli abitanti che se ne stiano a casa loro eh! No, perché se arrivano poi noi dove li mettiamo? Nei soliti alberghi a 5 stelle? Poi arrivano con quella presunzione, ci rubano il lavoro e noi invece tutti laureati e disoccupati. Si, perché io con la mia laurea in filologia moderna potrei anche voler andare nei campi a fare la bracciante agricola senza contratto, senza sindacato, senza alcuna tutela, tutti i giorni sotto il sole cocente per un misero stipendio, però ci sono loro‘.

Con uno degli ultimi episodi scoppiati in Calabria, in cui non vorrei neanche metter bocca tant’è riprovevole, si può assolutamente constatare quanto l’uomo sia egoista, crudele, folle. Non bisogna per forza trovare l’estremista, anche il più moderato potrà pronunciare ‘che si curino a casa loro’. Però guai se la Germania non avesse accettato di curare i positivi italiani nei loro reparti di terapia intensiva. Ma noi siamo italiani, noi siamo europei, noi siamo superiori. E sapete cosa penso sempre più spesso? Che se Primo Levi fosse nato oggi, magari nero, avrebbe potuto rivivere quel terribile olocausto in una versione rivisitata. Perché nessuno ha paura di ballare in un lido striminzito senza alcuna precauzione e misure di contenimento varie, ma tutti hanno paura di quei 13 positivi asintomatici rinchiusi in uno stabile per ‘scontare’ la loro quarantena. Perché ormai ci si nasconde dietro a finte preoccupazioni, laddove regna l’imparzialità, laddove regna l’ignoranza. Questa maledetta legge del più forte, persone che sottostanno ad abusivismo, mafia, che si riempiono i polmoni parlando di onore e valori, che restano zitti davanti ai più sconcertanti abusi di potere; eccoli tutti rinvigoriti e forti, pronti a protestare contro degli uomini scampati alla guerra, alla fame, all’estrema povertà, pronti a riscattare la loro posizione di sottoposti prendendosela col più debole. E non voglio aggiungere altro perché la nausea e la rabbia mi aggrediscono.

Forse quest’anno potrei ricreare sul balcone di casa mia il mio locus amoenus: la vista mare c’è, un buon bianco sempre fresco c’è, mancano le lucine –che potrei recuperare rispolverando i cartoni delle “cose di natale”, conservati su in mansarda- e godermi il mio momento, senza timori, senza polemiche ma in pace. Non sarà un’estate facile, ma la convivenza non è mai stata facile.

Tramonti di casa.

scusate il ritardo.

Non sono una ritardataria nata. Anzi, quando posso, mi piace sottolineare di non esserlo proprio. L’arrivare in ritardo ad un appuntamento, anche col migliore amico che ti conosce e dunque ‘lui mi capirà’, spesso è sinonimo di noncuranza, addirittura mancanza di rispetto. Diciamo che a nessuno piace aspettare, quindi sarebbe ideale rispettare gli appuntamenti, cari amici.  Ma, c’è un ma, per quel che mi riguarda il mio ritardo è sempre giustificato e quanto meno, a mio avviso, giustificabile.

Questo perché? Ebbene tutto nasce dalla mia erronea idea che ho di me stessa; mi faccio capire meglio: se ho un appuntamento per le 21, io fino alle 20 starò sdraiata sul letto lasciando che la mia mente vaghi e viaggi; inizierò a prepararmi mezz’ora prima perché “io non ci metto niente a prepararmi!”. Che poi quest’affermazione è assolutamente inconfutabile, non passo ore davanti lo specchio per trucco e parruco –anzi, a stenti mi pettino-. Forse è più per la frase che, per antonomasia , viene erroneamente accostata al mondo femminile –ma sappiamo tutti che per gli uomini a volte è anche peggio- del “cavolo! Non ho niente da mettere”, e dunque quegli interminabili momenti a fissare l’armadio: sono questi istanti che mi fanno perdere del tempo prezioso. –Che poi vi giuro, non ho mai assolutamente niente da mettere, non so come sia possibile!-

Tentativo di “sto arrivando”

In ogni caso la storia del ritardo agli appuntamenti è un male che affligge tutti; perché tutti ci siamo ritrovati a volte nell’attesa solitaria –quei momenti in cui ti chiedi perché non ho il vizio del fumo?! almeno ti sentiresti meno idiota nello stare seduto su quella panchina in solitaria mentre intorno a te ruota un mondo pieno di gente in gruppo che sghignazza felice-, altre volte in casa, sommersi dal panico e dalla frase che ti viene urlata da tua madre o anche semplicemente dalla tua testa “muovitiii! Sei in ritardo”, e così, cercando di fare il tutto di fretta, esci di casa come la nuova Moira Orfei.

Diciamo che io esperienza nel campo dell’attesa ne ho leggermente di meno; per il resto ho un ampio ventaglio di aneddoti e storielle avvincenti circa il mio essere non volutamente e, come già detto, giustificatamente in ritardo; il mio primo anno a Torino, ad esempio, vivevo leggermente decentrata. Questa è stata la giustificazione di ogni mio singolo ritardo, da aggiungere il riposo sul letto fino a mezz’ora prima dell’appuntamento e la scarsa dimestichezza con i mezzi pubblici,  così mi ritrovavo ad arrivare a serata già inoltrata.

Ma le mie rocambolesche avventure attinenti a ciò sono innumerevoli –vedi articolo passato su ‘skincare’, maschere viso e ritardi in stazione, lo consiglio per la simpatia e la consapevolezza che non siamo mai soli nella disgrazia-. Si, perché se un ritardo ad un appuntamento rischia di rovinare l’umore e l’intera uscita, a volte si gioca anche per altro.

Secondo tentativo di “sto arrivando”

Uno degli episodi che ricordo con ancora aumento di battiti e fronte madida di sudore si rifà ad una soleggiata giornata di inizio aprile. Mi trovavo a Torino e quel giorno ero leggermente su di giri per il rientro pasquale in Calabria. Dopo aver fatto colazione, aver preparato un ghiotto quanto leggero panino da mangiare per pranzo-insomma uno degli ultimi pasti leggeri in vista del rientro-, decido –come capitava spessissimo- di approfittare del sole ma soprattutto del largo anticipo con la quale stavo uscendo di casa, di andare a piedi verso la stazione. Il mio mezzo di trasporto questa volta sarebbe stato l’aereo, quindi recarmi in stazione per poter prendere la classica navetta da ‘turista’ centrocittà-aeroporto.

Scendo sotto casa ed eccolo, il mercato di Santa Giulia, quello bello che ricorda un po’ aria di casa per le sue dimensioni ridotte, il suo essere così intimo e confidenziale; e non te lo fai un giretto al volo tra la frutta e la verdura? Bene, dopo questa breve pausa decido di incamminarmi. Con passo moderato e calmo, trascinando il mio caro trolley neanche tanto pensate, mi dirigo verso la stazione di Porta Nuova. Il sole si fa sentire, così quei soliti 28 minuti di cammino sono segnati da pause: pausa acqua, pausa whatsapp, pausa “questacanzonenonmipiacelacambio”. Finalmente giungo alla fermata della navetta. Qualcosa non quadra, solitamente non dico che sia una fermata affollatissima, passando ogni 15 minuti il pullman –o probabilmente con meno frequenza, ma insomma non è rara la sua comparsa-, ma perlomeno non mi era mai capitato in 3 anni di essere l’unica a quella fermata. Poco dopo arrivò una signora, evidentemente provata dalla passeggiata anche lei, e mi domandò con fare un po’ turbato se fosse la fermata giusta. Io senza indugi le risposi affermativamente, caspita non è la prima volta che prendo questo pullman!

Leggerezza e mercato.

Il tempo passa e acuendo la vista mi accorgo che tutti i pullman visti in lontananza della serie “eccolo, sta arrivando”, in realtà non si erano mai palesati davanti ai nostri occhi. Dopo uno sguardo svelto di orologio e una sbirciata sul nostro caro amico Google, prendo atto e coscienza assoluta del fatto che la fermata era stata spostata dall’altro lato della strada, un paio di metri più avanti. Ora, benedetto pullman che passa con alta frequenza, ma dopo averne visti passare tre senza mai aver battuto ciglio, inizio a preoccuparmi.

Coinvolta la signora in questa corsa pazza, iniziamo con passo svelto e batticuore a raggiungere la nuova e confermata fermata –ecco infatti gli innumerevoli studenti fuorisede pronti a rientrare proprio come me, dunque quella flotta di gente mancante alla precedente postazione che avrebbe potuto essere un reale campanello d’allarme-. Qui, in attesa di essa, maturo per la prima volta l’idea che probabilmente avrei perso l’aereo. Saggiamente decido di scaricare ogni mia colpa sul prossimo, così chiamo mio padre e inizio ad accusare l’inefficienza della società delle suddette navette e del fatto che fossi lì da un’ora o poco più in attesa di queste e che semmai avessi perso l’aereo, la colpa sarebbe stata solo loro. Con fare già meno colpevole e con qualche gocciolina di sudore in più, attendo il pullman. Eccolo in arrivo. Siamo tanti, troppi. Con eccessiva lentezza la gente ripone il bagaglio in stiva e, probabilmente muovendosi in slow-motion, prendono posto. Io, dal mio canto, cerco di salire una delle ultime, per poter riporre il trolley tra in primi e scappare via una volta giunti alla meta agognata.

Nel frattempo mio padre, pronto ad inviare lettere di contestazione e denuncia alla società, continuava a mandarmi una serie di messaggi che destabilizzavano la mia apparentemente calma. Aggiungiamo i vari semafori rossi. Aggiungiamo le due fermate, o forse tre, che la navetta compie prima di arrivare alla metà. Aggiungiamo il display presente sulla navetta che annuncia l’apertura dei gate e l’inizio dell’imbarco per il mio volo. Aggiungiamo che mancavano pressoché 40 minuti al decollo. In tutto ciò, l’unica cosa che mi restava da fare era prendere lunghe boccate d’aria. Ecco la chiamata di mio padre, quella che non ti aspetti: <ho chiamato la compagnia aerea, ho chiesto se potevano tardare il volo di qualche minuto e ho spiegato che non è colpa tua. Ma loro affermano che il volo è in perfetto orario. Partono sempre in ritardo e oggi invece…apposta lo fanno!> Li per lì non sai se ridere o piangere; certo, la richiesta di mio padre di temporeggiare in attesa del mio arrivo ad una compagnia aerea non è cosa da poco. Nel frattempo matura in me l’idea che tra traffico e controlli avrei sicuro perso quel volo.

Arrivo davanti l’ingresso dell’aeroporto; un sentimento del tutto contrastante: vinta ma non arresa, mi catapulto giù dal pullman nello stesso momento in cui si aprono le porte. Nonostante i miei sforzi, il mio trolley non primeggia. Con un po’ di rabbia e di isterismo scaravento via quei bagagli che mi separano dal mio e, prima ancora che qualcuno potesse urlarmi contro, scappo via verso l’ingresso. Fortunatamente l’aeroporto di Torino-Caselle è minuscolo, così giungo rapidamente al nastro per i controlli e chiedo, con una voce mista a lamento quasi incomprensibile –famoso “pianto parlato”– <posso passare? Perfavore, il mio volo sta per partire!>, ma la mia lingua suona sconosciuta ai più; tuttavia evidentemente dovetti suscitare una certa pietà al “tipo dei controlli” che, accelerando la prassi e suggerendomi il gate mi disse “corri!”.

Niente ragazzi, quei pochi metri sono stati agonia pura! Arrivo al gate e mi sento dire <giusto in tempo, stiamo per partire!…ma per caso c’era qualcun altro ai controlli? Hanno chiamato pretendendo che li aspettassimo>. Il mio pianto liberatorio non appena seduta al mio posto suscitatò non poca preoccupazione nei miei vicini, ma ce l’avevo fatta. Anche questa volta. Probabilmente non imparerò mai dai miei errori, nonostante dopo tutta l’ansia accumulata l’unica frase ripetuta “mai più. Lo giuro. La prossima volta verrò quattro ore prima. Mai più davvero”.

Voi ci credete? Chissà, forse ho ancora qualche storiella da raccontare in futuro. Per ora cerco di essere puntuale ai pasti, sennò non trovo niente a tavola! E voi? Come ve la cavate con gli orari e gli appuntamenti?

Dipendenza da…Mi piace!

Ormai siamo tutti abituati a vivere a stretto contatto con il nostro dispositivo mobile, abbiamo tutti firmato un contratto con quel nuovo gestore telefonico che ci ha promesso innumerevoli Giga e voli pindarici, siamo tutti iscritti, almeno, ad uno dei social network in voga e abbiamo tutti –chi più chi meno, chi ne è cosciente chi meno, chi lo ammette chi meno– una dipendenza da essi.

Lo so, è questo argomento ampiamente discusso, ripetuto, letto e riletto, e ai più ha anche stancato. E allora perché ne parlo? Perché è uno di quei topic a cui tengo molto, di cui non mi stanco mai di discutere e di cui parlerei per ore –pensa che noia!-. La mia non vuole di certo essere una battaglia a favore di quel mondo analogico, che in fin dei conti non ho mai vissuto pienamente anch’io; si, sono cresciuta giocando giornate intere a nascondino, ‘strega comanda colore’, ‘guardia e ladri’, sbucciandomi continuamente le ginocchia, tornando a casa completamente sporca peggio di un lavoratore in miniera o uno spazzacamino, ma tornando a casa la tentazione di provare quel cd trovato all’interno dei Nesquik cereali o nei pacchi di brioches kinder, nonostante papà ripetesse “SONO VIRUS!” era sempre forte.

Nella critica età della pre-adolescenza tutti possedevamo ormai il primo cellulare: e così il via a quella messaggistica infinita, resa possibile da quelle promozioni “se non sei omnitel-vodafone non sei nessuno!” di ‘summercard’, ‘xmas card’ ecc..; da qui la battaglia di squilli: uno squillo = ti penso, più squilli = perché non rispondi ai messaggi? Le chiamate assolutamente bandite. E poi il sabato pomeriggio al catechismo –in cui capitava che per eccessiva voglia di trasgredire “oggi non entriamo!”- a scambiarsi le suonerie (il più delle volte registrazioni che diventavano virali) tramite infrarossi o bluetooth, per il più tecnologico. Ma sapete qual era il bello di tutto questo? E’ che nonostante avessimo promozioni per scambiare messaggi, nonostante avessimo voglia di scambiarci suonerie giorno e notte e guardare immagini, una volta insieme si era ancora capaci di giocare guardandosi negli occhi.

Ripeto, il mio pensiero non vuole porsi come una voce lontana nel tempo, non vuole assumere carattere demodé ne tanto meno invidia il modo di vivere Amish. Non voglio assolutamente essere controcorrente, piuttosto vorrei presentare una lucida e concreta riflessione su ciò che siamo oggi. A volte credo che la mia –probabilmente questa presunzione è un po’ di tutti-, sia la più fortunata tra le generazioni, essendosi trovata nel centro: un’infanzia ‘into the wild’, una prima adolescenza di approccio alla tecnologia, per poi appropriarsene veramente: è come se ci fossimo accostati in punta di piedi ad essa, senza mai abusarne. Questa differenza è importante perché ci diversifica abissalmente tanto dai nostri genitori quanto dai nostri figli o meglio, nel mio caso, da mia sorella di soli 7 anni.

Com’è ravvisabile questa differenza? Beh, a mio avviso è tutto abbastanza semplice e sotto i nostri occhi. Vi ricordate quelle ‘catene’ che arrivavano durante la ‘summercard’ e che i più avevamo già imparato ad evitare? Ebbene i 50-60enni oggi continuano ad inviarsi catene su whatsapp, immagini di api in estasi che preferiscono un tazzone di caffè al posto del nettare di un fiore poco invitante e così si ritrovano sospinti dall’abitudine ogni mattina di inviare il loro buongiorno a tutta la rubrica. E vi ricordate quando smettevamo di mandare messaggi perché già nel primo pomeriggio avevamo quasi raggiunto la soglia dei 100 e così ci distraevamo con altro? Oggi i 50-60enni sono liberi di inviare a tutta la rubrica le loro opinioni sull’articolo letto sulla rinomata rivista www.riconoscibilifakenews.it. E poi l’approccio vero a proprio con i social, quello è stato un vero disastro: la rivalsa degli ignoti.

Ma sapete quale è la vera piaga dei giorni nostri? I miei coetanei diventati genitori che appaiono estasiati e commossi quando il loro bambino di un anno e mezzo o forse due è capace di sbloccare lo smartphone, andare su youtube e guardare quella montagna di videotrash che propinano a queste giovani e ignare menti. Solo a pensarci ho la pelle d’oca. Forse dovrebbero tenere un corso obbligatorio, magari durante gli anni della scuola dell’obbligo, appunto, in cui insegnare che cosa sia la tecnologia, che arma possa rappresentare uno smartphone nelle mani sbagliate, che educazione se ne possa ricavare, cosa bisognerebbe proporre come alternativa. Ma il problema è che oggi per andare incontro ai ragazzi è la scuola che cerca di introdurre della tecnologia che possa arrivare a sostituire l’oggetto-libro, attirare la loro attenzione; così l’utilizzo della LIM dovrebbe essere la svolta.

Oggi è d’obbligo fare il ‘check-in’ social quando si arriva in un posto, studiare tutte le angolazioni possibili per poter dare il via ad una serie di foto da ‘bigLike’ –che se poi questi mancano, segue un profondo crollo di autostima-, dare sfoggio di un divertimento inesistente. Rimango sempre a bocca aperta quando incontro, nei posti più turistici, quelle ragazzine o anche donne sofferenti, imbellettate e fuoriluogo solo per poter scattare la foto in cima alla montagna in tacchi a spillo.

L’estate scorsa, più o meno in questo periodo, approfittando del fatto che mi trovassi libera definitivamente da ogni impegno universitario e approfittando della relativa vicinanza Torino-Liguria, decisi di fare una giornata intensa alle Cinque Terre. Così, dopo aver passato una notte semi-insonne, tra afa e zanzare, ci svegliammo –l’avventura è stata vissuta da me e Alberto– all’alba per andare a prendere il treno. Dopo rocambolesche quanto indicibili situazioni, rese amplificate da quei 40°, giungemmo al sentiero ‘bella vista’ di Vernazza. Qui volevamo scattare alcune foto da coppietta felice (per non venire meno anche noi a quei dettami che i vari social ci offrono), -con non poche difficoltà, in quanto essendo un sentiero, lo sciame turistico è un continuum- quando arriva questa coppia asiatica: lei in abito da sposa bianco, con tanto di velo in testa, e ombrellino per proteggere la sua diafana pelle, lui in età avanzata con polo, bermuda e calzini alti pronto a scattare duemila foto. Entrambi molto seri, quasi da pensare “probabilmente staranno lavorando”, ma no: tirano fuori lo smartphone e via a grosse risate probabilmente più “instagrammabili”.

Vedere personaggi divenuti celebri suoi social, senza alcuna prerogativa o competenza, guadagnare per una sola foto pubblicata una cifra pari allo stipendio di una vita, è abbastanza demotivante per tutti. Forse anche credere che continuando a studiare angolazioni e prospettive e scattare foto perfette possa darci simili risultati lo è altrettanto. Con fare un po’ anacronistico direi che siamo finiti sul fondo del baratro consapevolmente e forse volutamente. Ad una generazione di diplomati lavoratori, ad una generazioni di laureati disoccupati si succederà una generazioni di probabili ‘ignoranti social’, ma se questo può bastarci a prendere tanti like, ben venga.

D’altra parte chi non è molto legato al proprio smartphone ne paga costantemente le conseguenze! Personalmente, per quanto mi ritenga assuefatta da social, riesco a tenermi lontana da loro quando sono in compagnia. Non immaginate quante volte mi sia successo di aver discusso con Alberto perché quando sono fuori con amici sparisco totalmente, dimentico proprio di avere un cellulare in borsa. E sapete tutto ciò a cosa mi ha portato? Ad aver smarrito per ben due volte uno smartphone e accorgermene soltanto a fine serata, quando ormai reperirlo sarebbe stato pressoché impossibile. Quindi forse fanno bene le persone attente a filmare ogni attimo della serata dimenticandosi completamente degli amici che gli stanno intorno, perlomeno non subiranno alcun furto –almeno non lo smartphone-.

Luoghi in cui perdo/mi rubano il cellulare.

Ma se stare attaccati al vostro cellulare, significa stare costantemente connessi sul mio blog, non dovrebbero esserci problemi di nessuna serie. Un’ultima cosa: non dimenticatevi di mettere LIKE sulla mia pagina Facebook Giademecum, potreste aiutarmi a diventare una nuova Chiara Ferragni.

Non è INSTAGRAMMABILE!

Stamattina mi sono svegliata e, come da abitudine mentre sorseggio il mio latte macchiato, ho iniziato a dare un’occhiata alle varie news del giorno. Ecco campeggiare nella trafila diversi articoli dal titolo non troppo equivoco “La Calabria è senza turisti per mafia e terremoti”; in un primo momento, aiutata anche dal destarsi troppo lento del sonno, ho pensato “fake news”; dopo aver scelto con scrupolo la pagina di provenienza del link, mi ritrovo catapultata in un mondo di ingiurie e assurdità firmate EasyJet.

Ebbene, per chi non ha avuto la mia stessa fortuna di trovarsi davanti questa notizia, procedo per gradi: la nota compagnia svizzera, utilizzata assiduamente dai poveri pendolari per la proverbiale tratta Lamezia-Milano, ha lanciato una funzionante quanto valida campagna pubblicitaria per promuovere il turismo in Calabria; lo slogan fa così: «Questa regione soffre di un’evidente assenza di turisti a causa della sua storia di attività mafiosa e di terremoti»; e poi continua «la mancanza di città iconiche come Roma o Venezia capaci di attrarre i fans di Instagram». Dunque si può concludere che la regione non sia affatto ‘instagrammabile’, le sue spiagge sono completamente vuote a causa di attività illecite e ‘ndranghetiste, e l’unica cosa che il turista sprovveduto incappato sfortunatamente in questa regione potrà vantare sarà quello di aver trascorso notti insonni temendo scosse, spiagge deserte e tornerà a casa con solo selfie considerando il paesaggio poco meritevole.

I miei selfie al PARADISO DEL SUB.

Ora, al di là di ogni spicciolo campanilismo, mi chiedo, sul serio io su un Blog di nicchia scrivo cercando di essere il più giusta e imparziale possibile e chi lavora per una società non di certo sconosciuta possa scrivere CACATE del genere passando inosservato? Possibile che il suddetto spot abbia passato la selezione? O può candidarsi la qualunque a scrivere slogan pubblicitari per EasyJet? –perché se così fosse, vorrei propormi!- Sono certa che i turisti esperti saranno attratti da questa terra di mafia e terremoti.

L’inguardabile Santuario di Santa Maria dell’Isola di Tropea

In uno degli articoli precedentemente pubblicati ho avuto estrema difficoltà ad elencare tutte le attrazioni che questa immensa terra possa offrirci. Vi dirò, sono nata e cresciuta in Calabria, nonostante gli studi universitari mi abbiano portato via da questa Terra –e probabilmente lo farà presto o tardi anche il lavoro-, rimango ancora oggi incantata dai paesaggi, dalle bellezze naturalistiche che questa regione ci offre. E’ vero, i mezzi di trasporto pubblici sono quasi totalmente assenti, le spiagge più belle a volte sono poco valorizzate, ma la verità è che sono genuine proprio come gli abitanti di questa regione –a volte fin troppo ospitali-. E non servono Roma o Venezia per poter scattare la foto del secolo, perché qui ci saranno distese azzurre, con fichi d’India in ogni dove, verdi montagne e paesaggi da cartolina e non capita raramente di trovare rovine risalenti ad epoche romane, come se il tempo non fosse mai passato.

L’Instagrammabile Le Castella.

Sapete, quest’ultimo weekend ho avuto la fortuna di ritrovarmi a festeggiare un 30esimo compleanno all’interno di una villa “wow“. Quest’ultima imponente e dall’arredamento in ‘stile zen’, con continui contrasti tra legno e oro, mostrava il suo punto forte all’esterno: la sua posizione collinare faceva si ché si avesse una vista mozzafiato sull’intero golfo di Squillace, lasciando fantasticare l’occhio nel blu del mar Ionio. Tutti siamo rimasti increduli davanti a tanta bellezzae lo dimostrano le duemila foto scattate in quei giorni, le pose plastiche assunte dalle ragazze e quelle discutibilmente virili dei ragazzi-. Questi due giorni sono trascorsi nel totale clima goliardico –in cui 10 amici ci siamo ritrovati in una villa di collina quasi fossimo protagonisti boccacceschi ospitati però da Jay Gatsby-. Si, l’impressione di fondo entrando in quella casa è di ritrovarsi nel Grande Gatsby di Fitzgerald –e di certo non si rischia di passare notti insonni aspettando scosse sismiche-.

anuanuaweii

Che poi, per quanto io sia sempre colta da quella nube di angoscia degna di ogni Dorian Gray rispettabile in ogni compleanno –in virtù del fatto che la notte di San Silvestro quanto il giorno del proprio compleanno coincidano nella fattispecie come l’inevitabile scorrere del tempo-, devo ammettere di aver avuto poco o niente la possibilità che questi pensieri spettrali si impossessassero di me. Grazie sicuro all’abilità di Ric30 –il festeggiato- di impegnare ogni momento della giornata –dal primo spritz all’ultimo kaciuto– ma anche grazie a ‘Daisy’ o meglio Francesca per aver scovato questa perla nell’Ionio, e grazie al mio affabile boyfriend Alberto, il “tranquillo” Luciano, il fashionblogger Davide e consorte Valerie –compagna ignara di miei lunghi monologhi-, grazie al mitico Beppe, bulldog francese, per aver portato a spasso Martina e Pasquale, a Zion e “Zion femmina” per la breve ma intensa follia, possiamo assolutamente confermare che non servano Roma o Venezia per aver tantissimo materiale da poter mandare avanti il nostro account Instagram per tutta la stagione estiva.

Posso concludere senz’altro che questa Terra, la mia Terra, non smette mai di stupire anche quando credi di aver visto ormai tutto. Solo quando la bellezza della natura incontaminata e la presa di coscienza delle umili quanto radicate e profonde realtà italiane non siano all’altezza del prodigo turista, che scelga un’altra meta a lui consona.

Amala e Difendila.

Attendere…

In questi mesi di isolamento e quarantena –essendo ormai solo un ricordo, si spera vivamente, è giusto finalmente utilizzare la corretta parola italiana!- è stato un dei maggiori passatempi di tutti, incalliti o meno: shopping online.

Io non ritengo di rientrare nella categoria delle ossessionate dallo shopping direi che quando scarseggiano i soldi, è difficile esserlo-, però ammetto con una lacrimuccia che riga il mio volto, di aver passato molto tempo a riempire carrelli online senza mai ‘svuotare’ il portafogli. Si, perché all’inizio ero un po’ titubante (titubante sul sistema, titubante sulla sicurezza dei siti, titubante su tutto!). Ricordo ancora il mio primo ordine online: un poster raffigurante il Bacio di Klimt. Lo acquistai su Amazon insieme a mio fratello, coordinatore dell’operazione; quel poster mi ha seguito in tutti i miei spostamenti universitari (Pisa-Cosenza-Torino), e ora campeggia trionfante in una cornice homemade in camera mia. Ricordo che nel momento del pagamento fossi un po’ preoccupata, “un poster in arrivo dall’Inghilterra per il modico prezzo di 7 euro, sicuro la fregatura sarà dietro l’angolo“. Col tempo imparai a fidarmi ciecamente di Amazon, solo di Amazon –ancora oggi acquisto qualsiasi cosa ritengo essermi indispensabile senza pensarci mai due volte!-.

Uno dei motivi, abbastanza validi, per la quale non sono mai caduta nella voragine degli ‘acquisti-online-dipendenti‘, è che –soprattutto se si parla di abbigliamento- se una cosa non mi serve realmente, non ha senso l’acquisto. Mi spiego meglio perché a sentirla così sembrerebbe una citazione di ‘Capitan Ovvio’: andare fisicamente in giro per negozi, provare capi di indubbia utilità, innamorarsi perdutamente di un paio di scarpe vedendosele ai piedi, mi porta all’acquisto di ‘cose che non mi servono realmente’; stare sul divano col pc in grembo mentre scorro su una delle piattaforme di vendita, non so…forse anche, ma in maniera ridotta.

Detto ciò, ho una ristretta cerchia di siti di cui mi servo realmente per ‘coccolarmi’ da casa. Amazon è in assoluto in cima a questa lista, vuoi per l’affetto del primo ordine, vuoi per anzianità. Col tempo ha perfezionato ogni aspetto e oggi rientra in assoluto nei siti più sicuri del web. Inoltre, tempo fa, mi capitò un episodio increscioso: mi vennero detratti dei soldi per l’abbonamento Prime destinato in realtà alla cara guru Giorgia. Questo perché qualche tempo prima ne avevo ‘sfruttato’ il servizio comprando e pagando con la mia carta. Chiamai il servizio clienti per quello che ritenevo fosse un accredito insensato: la risposta fu celere quanto la soluzione. Abituata con servizi clienti dei gestori telefonici (insomma, con i numeri verde con la quale mi rapporto io), la cui messa in contatto diretta è ormai pressoché impossibile, sono rimasta assolutamente esterrefatta e soddisfatta: viva Amazon!

Seguono poi, nella mia ristretta lista di siti, piattaforme quali Zalando (consegne rapide, assoluta facilità per i resi, prodotti di qualità) della quale mi servo spessissimo; con più bassa frequenza, invece, Asos (tempi di attesa più lunghi, ma ciò che fa la vera differenza è la mancanza di recensioni, cosa a mio avviso indispensabile per poter acquistare online senza avere sorprese).

Ho voluto, di recente, sperimentare la rinomata piattaforma: Shein. Ora non so esattamente cosa mi aspettassi nel momento in cui misi nel carrello costumi dal costo variabile da 7 a 10 euro, ma, dopo l’attesa (peraltro anticipata rispetto al previsto) di 15 giorni, la delusione è stata tanta. Lì le recensioni ci sono –e le più esperte suggeriscono di leggerle attentamente per evitare spiacevoli sorprese– tuttavia non le trovo condivisibili. Probabilmente colpevoli anche le mie –totalmente ingiustificate– alte aspettative, ma posso dire a gran voce di aver provato un sito tanto chiacchierato e di non volerne più usufruire. Ovviamente per il prezzo speso, i pezzi vanno più che bene, ma da non ripetere –nonostante continuino ad apparirmi le inserzioni e con occhi sbarrati urlo “bellissimo questo peròòòò, magari è diverso!”-.

Ma il vero protagonista, struggente, ansioso, pungente, insidioso, insopportabile, tormentoso, sospiroso è l’ATTESA DEL PACCO. Ebbene si. Perché se c’è una cosa che lo shopping online non potrà mai arrecare, è l’estasi, è la gioia, è l’appagamento di sfoggiare il nuovo acquisto subito dopo averlo fatto. Così, col cuore sospeso, lascio che ogni giorno trascorra inesorabilmente per poter sussultare al suono del citofono, ogni volta. Il problema qual è? L’illusione, la falsa speranza, che serpeggia dentro di te subito dopo aver cliccato su “acquista”. Da lì in poi, sarà un susseguirsi di false gioie, perché tuo padre attende un pacco, ma anche tuo fratello minore, ma anche tuo fratello maggiore. Così si ripete la dinamica: citofono-entusiasmo-corsa alla porta- “c’è un pacco per Michele!”.

Ma in fin dei conti, che cos’è realmente l’attesa? Frasi alla quale siamo ormai abituati “l’attesa del piacere è essa stessa il piacere” o peggio ancora “colui che aspetta molto può aspettarsi poco”. Come ci insegna Leopardi, nel celeberrimo canto ‘Il sabato del villaggio’, composto nel 1829, la gioia e dunque il piacere che ne deriva e che si raggiungono durante l’attesa della festa, vengono poi sistematicamente disfatte e disperse dal giungere di questa. E così, come per Leopardi il sabato in attesa della festa, metafora della giovinezza, è il momento felice che precede la presa coscienza della vanità delle cose; per me è l’attesa del pacco (di Shein) che precede la presa coscienza dell’orribile spesa fatta.

Hopper rappresenta l’attesa del fattorino

Peggio ancora dell’acquisto su Shein: una volta successe che ordinammo una pizza con Just Eat insieme alla mia coinquilina. Lì l’attesa è veramente un qualcosa di atroce, niente gioia del sabato, solo sospirosa attesa. Aspettai il fattorino continuando a controllare il cellulare e spiando dal balcone, eccolo! Arrivò la pizza, preceduta dall’odore, aprì il cartone ed ecco giungere la presa di coscienza dolorosa: la vegetariana senza pomodoro. Ma come? Doveva essere rossa e invece è bianca, e mancano anche i pomodorini. Delusione e dolore. La mangiai ugualmente senza contattare la pizzeria per paura di dover aspettare ancora, ma non descrivo l’immenso senso di inappagamento che seguì quella cena.

È tanta la gioia! È tanta la gioia!

Eppure, poveri come me,

Se dovessi fallire, che povertà!

Hanno rischiato tutto in un tiro di dadi!

Hanno vinto! Sì! Tanto esitava –

Da questa parte la Vittoria!

La Vita è solo Vita! E la Morte, solo Morte!

L’Estasi è solo Estasi, e il Respiro solo Respiro!

E se proprio dovessi fallire,

Almeno, conoscere il peggio, sarà dolce!

La Sconfitta non significa altro che Sconfitta,

Nulla di più triste, può accadere!

E se vincessi! Oh Cannoni sul mare!

Oh Campane, che siete sui campanili!

All’inizio, ripetetelo lentamente!

Perché il Cielo è una cosa diversa,

Immaginarlo, e svegliarcisi all’improvviso –

E potrebbe annientarmi!

Con questa poesia di Emily Dickinson, il cui vero significato viene qui travisato per poter meglio adattarsi al momento che segue l’acquisto online, vi saluto chiedendovi, sono solo io?

Ultimo giorno

E con oggi anche l’ultimo giorno di scuola vola via –perlomeno in Calabria-. L’entusiasmo che caratterizza questo periodo è oggi pressoché nullo; osservo mia sorella che si appresta a terminare la seconda elementare. In sostanza cosa cambierà per lei? Probabilmente nulla. Qualcosa cambierà per mia madre, finalmente libera ed esonerata dal compito d’insegnante di matematica, italiano e inglese e finalmente potrà ritenersi in vacanza.

Oggi va perduto uno dei giorni più belli in assoluto del mondo-scuola: l’ultimo giorno è da sempre sorrisi, abbracci, lacrime trattenute, promesse, quell’entusiasmo esagerato al risuonare dell’ultima campanella e via tutti a correre, carichi di buoni propositi per l’anno seguente. E’ così che ricordo i  miei ultimi giorni di scuola che, seppur di tempo ne sia passato, rimangono indelebili nella mia memoria. Euforia era la parolachiave.

Tuttavia con oggi si chiude –e spero veramente ‘a mai più’- un capitolo particolare. Abbiamo dovuto confrontarci con la, ormai sentita e risentita, didattica a distanza. Ma tutti ne abbiamo realmente colto l’essenza? Tutti siamo stati capaci di comprenderne la portata? Io ho ‘raccolto’ un po’ di pareri, tra sorella, mio fratello costretto a seguire le lezioni universitarie online e amici insegnanti alle prese con pc e tablet, e posso ritenermi alquanto informata.

La critica al caro ministro Azzolina non può mancare: attraverso poche e semplici parole ha dimostrato di non essere un’attenta pedagogista: annunciare ad inizio pandemia che tutti gli studenti, qualunque fosse stata la valutazione dell’insegnante, avrebbero comunque ottenuto la promozione, non è stata certo una mossa scaltra. Cosa c’è di ‘non’ pedagogico in questo? Bhè, è psicologicamente comprovato come, anche il ragazzo più diligente vedendosi privato di stimoli, obiettivi, ‘premi’, ha un calo di prestazione; il ragazzo furbetto potrebbe retoricamente domandarsi “perché continuare a studiare? Ci rivedremo tutti a settembre!”. E che ‘studiare serve nella vita e non ad ottenere un semplice voto’, questo purtroppo lo si capirà soltanto una volta usciti dal mondoscuola.

La didattica a distanza è una realtà prospettata con spavento già da qualche tempo, e dovuta attuare improvvisamente per sopperire allo stato di emergenza. Come molte cose presenta aspetti polivalenti: tra i vari vantaggi riconosciuti, è senz’altro la comodità di poter rimanere nelle mura domestiche, in tuta e pantofole. Vi si possono riscontrare anche vantaggi di tipo economico, non dovendo utilizzare mezzi di trasporto; di altro non saprei aggiungere. Mi schiero assolutamente  a favore delle lezioni in presenza.

Uno dei miei ultimi esami universitari è stato quello di pedagogia generale –per accaparrarmi così uno dei quattro ambiti dei famosi e rinomati 24 CFU-. Tra il diverso materiale a mia disposizione, c’era un articolo: “La crisi della figura insegnante”. La domanda è semplice, cosa ci si aspetta realmente da un insegnante? Una risposta univoca non c’è; perché oggi, per quanto si rincorre un sapere specializzato, in un insegnante ci si aspetta di trovare un tuttologo. Sappiamo essere, infatti, compito della scuola quello di formare intere civiltà –da qui sorgerebbe l’ovvia domanda/affermazione “meriterebbe maggiori investimenti”?!-. Negli anni, e non negli ultimi anni, le riforme scolastiche sono state tante, troppe; a volte con cambi di rotta radicali e successivi passi indietro, una scuola che pretende la fuoriuscita dello studente modello, ma una scuola che non si è mai preoccupata di formazione insegnanti in maniera pragmatica. Ci si ritrova letteralmente allo sbando in un mondo che richiede sempre di più da questa figura: educatore, formatore, istruttore, informatore, pedagogo, psicologo, deve conoscere una seconda lingua a livello B2 –almeno-, deve avere una serrata preparazione informatica e poi ancora confidente, empatico, severo, coinvolgente…perché “gli studenti non sono degli imbuti” (le sublimi metafore del ministro).

Tuttavia per quanto tortuoso possa presentarsi il cammino di un insegnante –e sia chiaro questo post non vuole presentarsi come un’ode al maestro-, in questo periodo più che mai si è avvertita in maniera massiccia la mancanza della scuola, della struttura, dello svegliarsi la mattina pieni di angoscia e male di vivere e stare 5 o più ore nei banchi, della convivenza con i coetanei, del confronto tra docente-studente, dell’aiuto del compagno di banco, dell’intervallo, del panino smangiucchiato già dalla seconda ora, del nascondersi dietro il compagno più alto per sfuggire allo sguardo del docente, delle interrogazioni, dei compiti in classe. Fra i problemi della didattica a distanza, al di là delle disparità economiche emerse, ne risulta gravemente danneggiato l’apprendimento in sé, la distrazione è raddoppiata e con sé il senso di frustrazione e disagio.

Qualche giorno fa leggevo, sulla nota piattaforma di Zuckerberg , il parere strettamente necessario di un ex studente diplomato al liceo classico come massimo titolo di studi; questo perorava la sua causa a favore di un’estensione della didattica a distanza, ritenendo anzi il ritorno nelle scuole come un regresso. La condivisione dei sentimenti, angosce, paure, ansie, gioie, amori, felicità all’interno delle mura scolastiche fanno crescere: anche questo è insegnamento. Cosa metteranno nel loro baule dei ricordi i maturandi 2020?

Io della mia maturità conservo un enorme baule! Già da febbraio le dispute in classe sulle tesine: chi ne trovava diverse online (cose del tipo “amore motore”, x-y le due incognite), chi si ingegnava per dar sfogo alla propria fantasia; e poi implorare i docenti interni di fornire aiuto d’ogni tipo e poi la ’notte prima degli esami’, cena fuori e saluto davanti i cancelli dell’istituto con la speranze di ritrovarsi il mattino dopo più serene e senza ansie. E poi il sorteggio per gli orali, Teresa –non porto rancore!- si offre volontaria e, sorpresa: sarò io ad aprire le danze per l’intero istituto (il primo di luglio). Il mattino della prova orale la vera tensione era il pensiero di dover discutere davanti a praticamente mezzo istituto, ma una volta voltate le spalle al pubblico, comincia il teatrino: ripetei due volte con ammirevole disinvoltura il trafiletto, imparato a memoria, su Oscar Wilde e The picture of Dorian Gray nonostante la domanda dell’insegnante fosse diversa; quando la mia tesina arrivò nelle mani di uno dei commissari esterni in psicologia, si accorse che mancava un argomento per la materia, a mia discolpa ammisi che nonostante fosse materia d’esame, mi ero rifiutata di aggiungere un argomento mai trattato in classe, ma nonostante ciò, con molto imbarazzo riuscì a farmi dire due paroline su Freud; il peggio arrivò quando prese parola il presidente di commissione, docente di matematica, volle a tutti i costi andare “fuori programma” e non solo, decise di metter sù una mini lezione di matematica, essendo io sin da tempo immemore negata in materia. Ovviamente immaginate voi, con l’ansia, le risate trattenute alle mie spalle, il caldo, quanto riuscì a seguire le sue parole, nonostante rimbombasse nella mia testa una sola frase: stai attenta, se dovesse chiederti “cosa ho detto? Che risponderai?”. Nonostante ciò, insomma riuscì a diplomarmi!

Notte prima degli esami.

Credete sul serio che la scuola possa diventare mera trasmissione dei saperi al di là di uno schermo? come scrive il professor Enrico Galiani non si può insegnare a distanza. Ripetete con me. Non si può. Insegnare. A distanza. Istruire, sì. Inoltrare informazioni, certo. Trasmettere nozioni, anche. Ma insegnare è un’altra cosa. Insegnare non è buttare dentro roba: che sia in un computer, in una piattaforma cloud o in una testa di un ragazzo. Insegnare è tirare fuori roba.  Insegnare non è mettere insieme ingredienti, un po’ di grammatica qua, un po’ di storia là: insegnare è mescolare. Muovere energia. Insegnare non è accendere desktop o schermi di cellulari, ma accendere idee, fare domande, svegliare dubbi, far passare la luce.

E voi? Che ricordi conservate tra i banchi? E l’ansia da maturità?

Vacanze…a brevi distanze!

Le temperature nella punta dello stivale sono aumentate già da un po’. Molti bagnanti, approfittando delle maggior libertà concesseci, ne hanno approfittato per fare un tuffo nel profondo mare blu. Io, per quanto sia amante del mare, per quanto il suo odore e il suo rumore creino una sorta di estrema dipendenza, di quelle che provocano dolore fisico quando si è troppo lontani, insomma nonostante tutto, non amo inaugurare in anticipo la stagione. Probabilmente in virtù del tardo saluto con la quale mi congedo ogni fine estate –impegni e partenze permettendo, fino a metà ottobre continuo a sguazzare nelle più azzurre limpide acque che la costa tirrenica possa regalarci sul finire-. Tuttavia prender parte, perlomeno visivamente, dello sguazzare altrui, sbracciarsi e tirar fuori i costumi che ancora conservano quell’odore salsedinoso, curare l’abbronzatura e soprattutto dare il benvenuto a giugno, non possono che significare una sola cosa: vacanze estive in arrivo!

La situazione che stiamo attraversando è quella che è. Non ci sono molte certezze del domani –né realmente del domani inteso come 4 giugno, né metaforicamente del futuro-. Così, eliminando volente o nolente le mete lontane, dispendiose e probabilmente anche diventate inaccessibile per gli italiani –cosa sulla quale si dovrebbe scrivere un post a sé-, cosa ci resta da fare? Rimanere nel ‘bel Paese’! –e sia chiaro, non vuole assolutamente suonare come un ripiego inappagante-. Devo ammetterlo, ho un debole per l’Italia. Ciò che mi ha sempre portato a scegliere altro sono stati un po’ i prezzi poco competitivi, a volte spaventosi della nostra nazione. Spero che quest’anno, perlomeno, ci si possa venire incontro; perché se questi benedetti avventori abbiano o meno la possibilità di risollevare l’economia italiana, o perlomeno contribuire in ciò, l’aiuto deve essere reciproco.

Inserisco una piccola quanto pungente critica: sono stati mesi duri, quasi indistintamente per tutti. La voglia di ricominciare, di riprendere in mano la propria vita è al pari livello. Molte persone tutt’ora non hanno ripreso il proprio lavoro, c’è chi ancora aspetta la cassa integrazione, chi invece non ha mai smesso di lavorare; dunque trovo ingiusto e inappropriato il raddoppiare –e se non si parla di raddoppio comunque si parla di aumento- dei costi di qualsiasi servizio o genere –anche alimentare se si parla di ambito ristorativo-. Io sono mesi che bramo di mangiare una pizza, una real pizza; erano mesi che bramavo di mangiare del sushi; tuttavia se in una cena mi tocca recuperare tutte le spese che non ho sborsato in due mesi, continuo ad impastare il sabato mattina nella mia cucina. L’economia si risolleva si, ma aiutandoci e sostenendoci. Con questo ci tengo a sottolineare che la critica parte semplicemente da una mente pensante senza alcun fondamento economico o statistico, se qualcuno mi rispondesse dicendo “un ristorante per andar avanti in questo periodo deve necessariamente raddoppiare i prezzi perché…”, io sarei lieta di apprendere.

La storia insegna che i traguardi possono essere raggiunti insieme, uniti. Il 2 giugno del 1946 l’Italia si dichiarava a gran voce Repubblica, traguardo immenso per una nazione. E per quanto, spesso, accadano eventi beceri, per quanto, spesso, si verifichino episodi marci, per quanto, spesso, sia stata governata da avvoltoi, preferisco di gran lunga il sogno italiano a quello a stelle e strisce. Tutto sommato, ogni volta penso a quanto possano far male certe cose, a quanto marcia possa essere la società odierna, mi ritorna in mente una frase di  Candide, ou l’Optimisme, breve romanzo filosofico di Voltaire.

Candide, ou l’Optimisme

L’intero testo di ‘Candido è un’implicita confutazione delle dottrine filosofiche ottimistiche di Leibniz; davanti ad ogni male del mondo, davanti ad ogni disavventura anche la più incredibilmente brutta che il protagonista dal nome parlante subisce, il precettore Pangloss ripete, come un vero e proprio mantra “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, completamente acciecato da ottimismo becero e privo di fondamenta. Il romanzo, breve quanto immenso, termina con il ricongiungimento di tutti i personaggi intenti a lavorare il proprio giardino.

«In questo migliore dei mondi possibili, tutti i fatti son connessi tra loro. Tanto è vero che se voi non foste stato scacciato a gran calci nel sedere da un bel castello, per amore di madamigella Cunegonda, se non foste capitato sotto l’Inquisizione, se non aveste corso l’America a piedi, se non aveste infilzato il Barone, se non aveste perso tutte le pecore del bel paese El Dorado, voi ora non sareste qui a mangiar cedri canditi e pistacchi». «Voi dite bene», rispondeva Candido, «ma ora bisogna che lavoriamo il nostro orto». Con queste parole, termina il romanzo. Se ognuno di noi lavorasse meglio il proprio orticello, nutrendolo di conoscenza, di buoni principi, di giusti valori, si vivrebbe non ‘nel migliore dei mondi possibili’, ma sicuro in un mondo migliore. E no, non bastano le frecce tricolore affinché la gente smetta di aver fame, la gente smetta di rubare, la gente smetta di uccidere.

Per mettere da parte, accantonare, perché dimenticare non si può, le brutture commesse dall’uomo, non ci resta che viaggiare in cerca di paradisi naturalistici o costruzioni architettoniche imponenti che fanno sognare: l’Italia è tutto questo. Ho la fortuna di vivere in una regione, la Calabria, capace di soddisfare questo bisogno impellente di stare a stretto contatto con la natura: così non mi farò mancare un soggiorno a Capo Vaticano, un giro per Tropea –e magari questa volta visitare il Santuario di Santa Maria dell’Isola-, un panino con pescespada a Scilla –ammirando il meraviglioso borgo di Chianalea-, un tartufo a Pizzo e una visita alla chiesetta di Piedigrotta, una serata a Soverato, un tramonto sul lungomare di Reggio Calabria –ma solo dopo aver ammirato i bronzi di Riace– , magari riuscirò anche ad andare a San Nicola Arcella, Isola di Dino, e poi avrò il tempo di esplorare le coste dell’antica Magna Grecia, il parco archeologico di Capo Colonna, Sibari, andrò a Le Castella, passeggerò tra i ruderi, quelle casa abbandonate ricche di storia e di racconti a Pentedattilo, potrò immergermi e perdermi nel verde del Parco della Sila, sul lago Arvo o Cecita, nel Parco dell’Aspromonte…potrei continuare all’infinito tra storia e natura.

Parco Nazionale della Sila

E se mi rimanesse ancora del tempo, potrei approfittarne per fare quel viaggio tanto atteso quanto rimandato di una Sicilia cost to cost; o ancora, approfittare delle origini mezze molisane del mio ragazzo per poter respirare aria fresca Molisana in quel di Capracotta e abbuffarmi di spaghetti alla chitarra al tartufo e caciocavallo alla piastra, poi approfittare della “vicinanza” con la Puglia e fare un salto a Polignano o Alberobello –non so, due a caso-. Vorrei aver il tempo di visitare l’Umbria  e poi ancora perdermi nei vigneti della Valpolicella e scovare qualche villa romana. L’Italia è un sogno, di arte, natura, di sapori, di colori. Vorrei avere il tempo –ma più che quest’ultimo, i soldi– per poter visitare ogni più remoto territorio.

Capracotta’s view

Le idee sono tante e poco chiare, ma “vivendo nel migliore dei mondi possibili”, ne uscirà fuori una meravigliosa estate –senza rimpianti!-.

Voi? Avete già idee? Let me know! Un bacio

Nun te raggae più!

Qualche tempo fa, non lontanissimo tempo fa, mi capitò sott’occhio, assolutamente per caso, un video-intervista del 30 ottobre 1978. La voce di Maurizio Costanzo non ancora incomprensibile biascichio; seduto ad un enorme tavolo di vetro, con difronte una donna dal portamento composto ed elegante, Susanna Agnelli. In piedi, mero intrattenimento, quasi fosse giullare di corte, un giovanissimo Rino Gateano. L’accoglienza dell’intervistatore, la sua arroganza e il suo palpabile disprezzo, non sembrano tuttavia turbare lo sprovveduto intervistato. Le parole di Costanzo, immagino selezionate con cautela e criterio, appaiono tutt’ora tinteggiate di una forte ironia malsana, canzonatoria e disprezzante: “Questo giovanotto, che si chiama Rino Gaetano, è un cantautore che fa canzoncine ironiche, scherzose, scanzonate…”. Le cattive insinuazioni da parte di Maurizio Costanzo non appaiono neanche tanto velate. D’altra parte, il suo ‘astio’ fu probabilmente dettato dal fastidio nell’essere presente “nell’elenco delle pagine gialle”.

La canzone in questione –se non vi fosse ben presente quest’episodietto cercatelo su Youtube, dura meno di 3 minuti– è NUN TE REGGAE PiU‘.

Rino Gaetano, artista assolutamente in voga, oggi più di ieri. L’immortalità di una persona, nel caso specifico di un cantautore, è senza ombra di dubbio decretata dall’attualità dei suoi testi. E’ così che in genere funziona per ogni forma d’arte immortale. Altrimenti si potrebbe dire “bella, ma astorica”, come accade spesso con poesie dalla melodia e dal ritmo dolce ma impossibili da parafrasare, o anche come accade come molte canzoni degli anni passati. Quelle di Rino Gaetano no. Probabilmente la sua fortuna sarà stata quella di essere stato controcorrente, di  aver rifiutato ogni etichetta, ma soprattutto quella di aver composto canzoni dall’apparente leggerezza che in realtà celano una ferrea denuncia politica e sociale. L’audacia di Rino Gaetano e a volte anche, perché no, l’irriverenza, ne hanno sancito l’immortalità.

Quante volte vi è capitato di ascoltare una sua canzone “perché mi mette allegria”, ballarla perché ha un ritmo festoso senza comunque soffermarsi sulle parole? Tra queste non può non esserci Nun te raggea più. Già dal titolo si evince l’esplosività del suo testo. E’ buffo pensare come un cantautore dichiaratamente apolitico, possa aver composto una canzone così grondante di politica; lui stesso, a proposito della canzone dichiara «Le canzoni non sono testi politici e io non faccio comizi. Questo è uno sfottò. Insomma, per me “Nuntereggae più” è la canzone più leggera che ho mai fatto».

Il brano, volendo utilizzare le sprezzanti parole di Costanzo, è un vero e proprio elenco ‘delle pagine gialle’, nella quale appaiono i nomi dei personaggi più in voga del periodo, politici, uomini di Tv, persone influenti, partiti, il tutto seguito da un sonoro “non vi reggo più!”. E l’attualità dove sta? Sicuramente molti dei personaggi citati da Rino non sono più influenti nella nostra nazione –probabilmente perché passati a miglior vita o semplicemente messi da parte-, ma quei nomi potrebbero benissimo essere sostituiti; se non è Dc o Pci ma troviamo Lega e M5s e Pd…tutta la canzone è un ‘cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia’, ve lo assicuro. –Volevo provare anch’io a stilare una lista, ma non sono Rino Gaetano, magari potrei incorrere in qualcosa di dannoso, evito-.

Sicuro è la canzone che ho perennemente in testa quando sento qualcuno che segue i programmi di Maria De Filippi‘Amici’ è il peggiore perché cela la spazzatura dietro finte facciate di talento-, nel 2020 continuare a reggerla è veramente difficile. Ma in quest’ultimo periodo è un’altra  la vera motivazione che mi ha spinto a scrivere con indignazione. La polemica nasce, a monte, dal mio essere polemica a prescindere. Ma in questo caso lo sarebbe chiunque: concorso scuole 2020. Ebbene chi ne sente parlare da anni –non lo regge più-, chi lo aspetta da anni –non lo regge più-, chi ancora deve acquisire i 24 CfU –non lo regge più-, chi sta cercando di acquistare il maggior numero di titoli possibili e immaginabili –ha soldi da spendere-, ma soprattutto chi segue le disposizioni del ministro Azzolina: non la regge più!

Siamo tutti consapevoli di essere stati catapultati in un momento storico delicato, precario, difficile. Allo stesso modo siamo tutti ben consapevoli che le basi della nostra formazione avvengono in quelle quattro mura –odiate, amate, agognate, temute, disprezzate, lodate-. Ora la mia polemica quale vuole essere?

Spiego, rapidamente, la differenza tra i due concorsi. Concorso straordinario: possono partecipare coloro i quali abbiano maturano almeno 3 anni d’insegnamento nella classe di concorso per la quale vorrebbero concorrere; Concorso ordinario: tutti gli altri, in possesso unicamente di laurea abilitante e 24 CFU in ambito antro-psico pedagogico e metodologie didattiche.

La mia breve quanto silenziosa diatriba nasce non tanto dalle proposte che si stanno succedendo in Camera, dove comunque bisogna in qualche modo affrontare l’urgenza di dover sostenere un Concorso atteso da anni –alto numero di partecipanti- ai tempi del Covid. La mia vera polemica nasce con la ‘vendita delle indulgenze’. Sostituiamo indulgenze con ‘Titoli’, cambia poco perché la corsa pazza è la stessa. Cosa significa? Scuole che rilasciano certificazioni e attestati a prezzi “modici”, persone incompetenti che acquistano i suddetti in vista di un concorso, gente ‘idiota’ che si limita a studiare e che non otterrà mai nulla. Se la vendita e il conseguente acquisto di tali titoli è così elevato e ben risaputo, come si può proporre di sostituire una prova di concorso con ammissione a titoli? In Italia circolano più certificazioni di C2 in una qualsivoglia lingua straniera che licenze medie.

Da questa compravendita di elementi, sentimenti, nozioni, metodologie e didattica vera e propria inorridisco.

Il numero cinque sta in panchina
si e’ alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d’accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest’estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l’argenteria
è più prosa che poesia…

P.s. consiglio la lettura dopo l’ascolto! Un abbraccio amici.

Dalla normalità alla libertà

Benvenuti nella FASE2.0.

Quanto entusiasmo nelle trafile, quasi non ci credo. Anche voi siete tra quelli un po’ scettici di fronte a questo scalpitio, oppure anche voi vi ritrovate in preda ad un irrefrenabile voglia di correre in spiaggia con lo spritz in mano circondati da tutti gli amici, anche quelli che non vedevate dal 1999?

Che poi ci sta, eh! L’entusiasmo intendo, credo sia legittimo. Chi non aveva o non sentiva l’incontenibile voglia di far festa? Credo che anche il più pantofolaio durante questo lockdown si sia ripromesso a gran voce “appena LIBERI, non rinvierò più la birretta del venerdì con gli amici!”. Io, dal mio canto, non vi nego che la sbronza di buon auspicio, quella di ‘è possibile vedere amici purché ci siano tutte le condizioni per poterlo fare’, l’ho già presa. Mi sono anche già ripresa.

Dunque non sarò proprio io a far qui una ramanzina su quanto sia un po’ imprudente correre al bar a prendere il caffettino con le amiche di sempre, o stappare la birra con la gang del bosco. Quello che mi lascia perplessa e basita, è l’uso –a mio avviso- spropositato che si stia facendo della parola LIBERTA’.

Viva la libertà. cit. Jovanotti

Ovunque si legge, sia su periodici che su social, “bentrovata libertà” “siamo liberi” “libertà tanto attesa” eccetera. Probabilmente, anzi sicuramente, ci sarà stato il povero sfortunato che abbia dovuto affrontare questo lockdown –più di sessanta giorni– richiuso in un monolocale, senza neanche un terrazzino su cui poter prendere il sole o solo una boccata d’aria fresca ogni tanto. In queste situazioni mi rendo conto che la sua condizione sia paragonabile a quella di un detenuto chiuso in una cella buia e malsana dalla quale, una volta uscito all’esterno e colpito da un raggio di sole, possa urlare LIBERTAAA’!. Ma non è stato così per tutti.

Non solo, qui, vedete, non si è trattato di una privazione di libertà e dunque una condizione di “riappropriamento” della perduta. Nessuno ha osato violare il nostro valore più grande, quello che tutti gli italiani il 25 di Aprile hanno commemorato nella propria stanza, probabilmente canticchiando ‘Bella ciao’. Qui nessuno è stato oppresso e ora sono giunti i nostri liberatori. No.

In ciò che scrivo, sia chiaro, non voglio assolutamente mancare di rispetto a nessuno. Sono ben consapevole che questa maledetta pandemia abbia causato perdite, abbia portato sofferenza e dunque abbia messo la gente nella condizione tale di dover urlare aiuto, di dover pregare per una fine, di dover sperare in un ritorno alla normalità. Ecco, è quella la parola che andrebbe utilizzata NORMALITA’. Perché sono due parole ben distinte, sapete, normalità e libertà. E se qualcuno di noi dovesse sforzarsi nel trovare la differenza tra le due, -normalità e libertà per l’appunto, ossia le due parole possono apparire quasi fossero sinonimi-, possiamo ritenerci veramente fortunati.

Dipinti da Lockdown

Comunque è inevitabile, sarà deformazione professionale, ma quando parlo di concetti quali appunto libertà e contrari, penso al grande Vittorio Alfieri. Sempre. Mi rendo conto che aver avuto la possibilità di approfondirne lo studio, sia stato benefico per entrambi –sono certa che lui sia lusingato dalle parole di ammirazione che gli rivolgo ogni volta-.

Alfieri: Titanismo e Tirannide

E’ grazie all’introduzione di un grande protagonista appartenente al quadro letterario 700esco italiano che voglio esporvi la mia tesi –si intenda, la mia non vuol essere né pedanteria, né una raccolta di articoli per eruditi appartenenti ad una ristretta cerchia, vedetela come un approccio ad autori la cui conoscenza è spesso limitata a causa di quel ‘canone letterario’ che ci porta alla conoscenza (approfondita?!) di pochi autori-.

Alfieri nella vita come nelle opere, mostra una reale insofferenza verso i regimi assolutisti; tutto ciò lo porta ad esaltare la Rivoluzione francese, vista in un primo momento come una presa di coscienza di un popolo, un atto di libertà. –Come ben sappiamo, la rivoluzione francese deluse le aspettative di molti, così come quelle dello stesso Alfieri-. Così, tanto nelle tragedie quanto nei trattati alfieriani, spiccano queste due entità, questi due segni opposti: tirannia e libertà. In una delle tragedie, Bruto I, protagonista è il difensore della libertà, Giunio Bruto. La trama, in breve, narra dei continui soprusi da parte dei Tarquini –nota famiglia romana-. Da qui, il fatto scatenante: la violenza subita da Lucrezia da parte di Sesto Tarquinio che ha condotto la donna, in seguito, al suicidio. D’innanzi a ciò, Giunio Bruto decide di reagire, scacciando la prepotente quanto potente famiglia romana dall’urbe e instaurare la Repubblica. Purtroppo, alla congiura per impedire la scacciata dei Tarquini, si ritrovano coinvolti anche gli adorati figli di Giunio Bruto: non resta altro da fare, mettere da parte gli affetti naturali in nome degli affetti di libertà; citando: più padre non sei, ma solo console e cittadino romano! Ed è con immenso dolore che condanna a morte i suoi stessi figli, proclamandosi difensore della libertà.

Ma è soprattutto quando si parla di ‘Alfieri politico’, e dunque dei suoi trattati che si evince la febbrile ‘brama’ di libertà. Nel Della Tirannide, l’autore astigiano –per altro riflettevo sul fatto che avesse la mia età quando pubblicò questo trattato– decide di dedicare il primo libro “Alla libertà”, in netta contrapposizione con gli scrittori del tempo, i quali erano soliti dedicare le proprie opere al principe, mecenate o potente di turno.

Piccolo ricordo: prima di acquistare il trattato, decisi di prenderlo in prestito dalla biblioteca di Storia dell’Università di Torino, dove il libro risultava esser disponibile al prestito. Ricevetti questo cimelio, prezzo vero di storia, degli anni 20/30 con tanto di dedica scritta a penna alla prima pagina. Avevo perennemente il terrore che mi si sgretolasse in mano. Quando andai a riconsegnarlo, il bibliotecario mi fece un super ammonimento dicendomi che quel testo era troppo antico per essere portato a spasso –peraltro lo portai anche al mare, effettivamente- e con aria di sfida o disprezzo mi disse “Non sarà mai più disponibile!”.

Alfieri, dunque, parla di LIBERTA’ in contrapposizione alla tirannide, in contrapposizione a quelle forme di governo soffocanti, che uccidono, privando l’autonomia del singolo o della collettività. Così nel trattato non solo descrive in cosa realmente consista la tirannide, ma non risparmia nessuno: nessun principe, nessuno despota illuminato, nessun primo ministro, né la milizia (né mercenari né tantomeno i volontari), né la religione (altra forma di tirannia). Ma non allarmatevi! Al buon Alfieri non è sfuggito di indicare come si possa vivere sotto tirannide o meglio ancora come si possa morire.

Tornando alla situazione vissuta da noi, la nostra “libertà ritrovata” non mi appare minimamente paragonabile a quanto detto sopra. Nessun cittadino, durante questo lockdown, è stato privato della propria libertà. Affatto. Forse a qualcuno sfugge che qui si parli di pandemia e non tirannia. Che poi abbia seminato panico e terrore come il peggior despota, non vi è alcun dubbio; ma l’obbligo di quarantena, l’obbligo di mantenere le distanze, l’obbligo di prendere tutte le precauzioni possibili a me non sono parsi come comandi dittatoriali, a me sono piuttosto parsi come dettami essenziali da rispettare per ridurre il contagio, per ridurre la mortalità, per ridurre i tempi di ripresa. Conte in questa situazione non ha assolto il ruolo del tiranno, ha semplicemente eseguito, con fare molto moderato, il suo dovere di presidente del consiglio. Ha semplicemente guidato un Paese che rischiava di essere inghiottito.

Dopo questo breve quanto necessario preambolo, auguro a tutti una ben ritrovata normalità, nei limiti del possibile.

Avendo anch’io ripreso la mia di normalità, come preannunciato nei primi post, ahimè toccherà dimezzare il doppio appuntamento col blog e ricordarvi che da oggi in poi pubblicherò solo una volta a settimana: MARTEDI’ –save the date!-

“…Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Un normale abbraccio amici!