scusate il ritardo.

Non sono una ritardataria nata. Anzi, quando posso, mi piace sottolineare di non esserlo proprio. L’arrivare in ritardo ad un appuntamento, anche col migliore amico che ti conosce e dunque ‘lui mi capirà’, spesso è sinonimo di noncuranza, addirittura mancanza di rispetto. Diciamo che a nessuno piace aspettare, quindi sarebbe ideale rispettare gli appuntamenti, cari amici.  Ma, c’è un ma, per quel che mi riguarda il mio ritardo è sempre giustificato e quanto meno, a mio avviso, giustificabile.

Questo perché? Ebbene tutto nasce dalla mia erronea idea che ho di me stessa; mi faccio capire meglio: se ho un appuntamento per le 21, io fino alle 20 starò sdraiata sul letto lasciando che la mia mente vaghi e viaggi; inizierò a prepararmi mezz’ora prima perché “io non ci metto niente a prepararmi!”. Che poi quest’affermazione è assolutamente inconfutabile, non passo ore davanti lo specchio per trucco e parruco –anzi, a stenti mi pettino-. Forse è più per la frase che, per antonomasia , viene erroneamente accostata al mondo femminile –ma sappiamo tutti che per gli uomini a volte è anche peggio- del “cavolo! Non ho niente da mettere”, e dunque quegli interminabili momenti a fissare l’armadio: sono questi istanti che mi fanno perdere del tempo prezioso. –Che poi vi giuro, non ho mai assolutamente niente da mettere, non so come sia possibile!-

Tentativo di “sto arrivando”

In ogni caso la storia del ritardo agli appuntamenti è un male che affligge tutti; perché tutti ci siamo ritrovati a volte nell’attesa solitaria –quei momenti in cui ti chiedi perché non ho il vizio del fumo?! almeno ti sentiresti meno idiota nello stare seduto su quella panchina in solitaria mentre intorno a te ruota un mondo pieno di gente in gruppo che sghignazza felice-, altre volte in casa, sommersi dal panico e dalla frase che ti viene urlata da tua madre o anche semplicemente dalla tua testa “muovitiii! Sei in ritardo”, e così, cercando di fare il tutto di fretta, esci di casa come la nuova Moira Orfei.

Diciamo che io esperienza nel campo dell’attesa ne ho leggermente di meno; per il resto ho un ampio ventaglio di aneddoti e storielle avvincenti circa il mio essere non volutamente e, come già detto, giustificatamente in ritardo; il mio primo anno a Torino, ad esempio, vivevo leggermente decentrata. Questa è stata la giustificazione di ogni mio singolo ritardo, da aggiungere il riposo sul letto fino a mezz’ora prima dell’appuntamento e la scarsa dimestichezza con i mezzi pubblici,  così mi ritrovavo ad arrivare a serata già inoltrata.

Ma le mie rocambolesche avventure attinenti a ciò sono innumerevoli –vedi articolo passato su ‘skincare’, maschere viso e ritardi in stazione, lo consiglio per la simpatia e la consapevolezza che non siamo mai soli nella disgrazia-. Si, perché se un ritardo ad un appuntamento rischia di rovinare l’umore e l’intera uscita, a volte si gioca anche per altro.

Secondo tentativo di “sto arrivando”

Uno degli episodi che ricordo con ancora aumento di battiti e fronte madida di sudore si rifà ad una soleggiata giornata di inizio aprile. Mi trovavo a Torino e quel giorno ero leggermente su di giri per il rientro pasquale in Calabria. Dopo aver fatto colazione, aver preparato un ghiotto quanto leggero panino da mangiare per pranzo-insomma uno degli ultimi pasti leggeri in vista del rientro-, decido –come capitava spessissimo- di approfittare del sole ma soprattutto del largo anticipo con la quale stavo uscendo di casa, di andare a piedi verso la stazione. Il mio mezzo di trasporto questa volta sarebbe stato l’aereo, quindi recarmi in stazione per poter prendere la classica navetta da ‘turista’ centrocittà-aeroporto.

Scendo sotto casa ed eccolo, il mercato di Santa Giulia, quello bello che ricorda un po’ aria di casa per le sue dimensioni ridotte, il suo essere così intimo e confidenziale; e non te lo fai un giretto al volo tra la frutta e la verdura? Bene, dopo questa breve pausa decido di incamminarmi. Con passo moderato e calmo, trascinando il mio caro trolley neanche tanto pensate, mi dirigo verso la stazione di Porta Nuova. Il sole si fa sentire, così quei soliti 28 minuti di cammino sono segnati da pause: pausa acqua, pausa whatsapp, pausa “questacanzonenonmipiacelacambio”. Finalmente giungo alla fermata della navetta. Qualcosa non quadra, solitamente non dico che sia una fermata affollatissima, passando ogni 15 minuti il pullman –o probabilmente con meno frequenza, ma insomma non è rara la sua comparsa-, ma perlomeno non mi era mai capitato in 3 anni di essere l’unica a quella fermata. Poco dopo arrivò una signora, evidentemente provata dalla passeggiata anche lei, e mi domandò con fare un po’ turbato se fosse la fermata giusta. Io senza indugi le risposi affermativamente, caspita non è la prima volta che prendo questo pullman!

Leggerezza e mercato.

Il tempo passa e acuendo la vista mi accorgo che tutti i pullman visti in lontananza della serie “eccolo, sta arrivando”, in realtà non si erano mai palesati davanti ai nostri occhi. Dopo uno sguardo svelto di orologio e una sbirciata sul nostro caro amico Google, prendo atto e coscienza assoluta del fatto che la fermata era stata spostata dall’altro lato della strada, un paio di metri più avanti. Ora, benedetto pullman che passa con alta frequenza, ma dopo averne visti passare tre senza mai aver battuto ciglio, inizio a preoccuparmi.

Coinvolta la signora in questa corsa pazza, iniziamo con passo svelto e batticuore a raggiungere la nuova e confermata fermata –ecco infatti gli innumerevoli studenti fuorisede pronti a rientrare proprio come me, dunque quella flotta di gente mancante alla precedente postazione che avrebbe potuto essere un reale campanello d’allarme-. Qui, in attesa di essa, maturo per la prima volta l’idea che probabilmente avrei perso l’aereo. Saggiamente decido di scaricare ogni mia colpa sul prossimo, così chiamo mio padre e inizio ad accusare l’inefficienza della società delle suddette navette e del fatto che fossi lì da un’ora o poco più in attesa di queste e che semmai avessi perso l’aereo, la colpa sarebbe stata solo loro. Con fare già meno colpevole e con qualche gocciolina di sudore in più, attendo il pullman. Eccolo in arrivo. Siamo tanti, troppi. Con eccessiva lentezza la gente ripone il bagaglio in stiva e, probabilmente muovendosi in slow-motion, prendono posto. Io, dal mio canto, cerco di salire una delle ultime, per poter riporre il trolley tra in primi e scappare via una volta giunti alla meta agognata.

Nel frattempo mio padre, pronto ad inviare lettere di contestazione e denuncia alla società, continuava a mandarmi una serie di messaggi che destabilizzavano la mia apparentemente calma. Aggiungiamo i vari semafori rossi. Aggiungiamo le due fermate, o forse tre, che la navetta compie prima di arrivare alla metà. Aggiungiamo il display presente sulla navetta che annuncia l’apertura dei gate e l’inizio dell’imbarco per il mio volo. Aggiungiamo che mancavano pressoché 40 minuti al decollo. In tutto ciò, l’unica cosa che mi restava da fare era prendere lunghe boccate d’aria. Ecco la chiamata di mio padre, quella che non ti aspetti: <ho chiamato la compagnia aerea, ho chiesto se potevano tardare il volo di qualche minuto e ho spiegato che non è colpa tua. Ma loro affermano che il volo è in perfetto orario. Partono sempre in ritardo e oggi invece…apposta lo fanno!> Li per lì non sai se ridere o piangere; certo, la richiesta di mio padre di temporeggiare in attesa del mio arrivo ad una compagnia aerea non è cosa da poco. Nel frattempo matura in me l’idea che tra traffico e controlli avrei sicuro perso quel volo.

Arrivo davanti l’ingresso dell’aeroporto; un sentimento del tutto contrastante: vinta ma non arresa, mi catapulto giù dal pullman nello stesso momento in cui si aprono le porte. Nonostante i miei sforzi, il mio trolley non primeggia. Con un po’ di rabbia e di isterismo scaravento via quei bagagli che mi separano dal mio e, prima ancora che qualcuno potesse urlarmi contro, scappo via verso l’ingresso. Fortunatamente l’aeroporto di Torino-Caselle è minuscolo, così giungo rapidamente al nastro per i controlli e chiedo, con una voce mista a lamento quasi incomprensibile –famoso “pianto parlato”– <posso passare? Perfavore, il mio volo sta per partire!>, ma la mia lingua suona sconosciuta ai più; tuttavia evidentemente dovetti suscitare una certa pietà al “tipo dei controlli” che, accelerando la prassi e suggerendomi il gate mi disse “corri!”.

Niente ragazzi, quei pochi metri sono stati agonia pura! Arrivo al gate e mi sento dire <giusto in tempo, stiamo per partire!…ma per caso c’era qualcun altro ai controlli? Hanno chiamato pretendendo che li aspettassimo>. Il mio pianto liberatorio non appena seduta al mio posto suscitatò non poca preoccupazione nei miei vicini, ma ce l’avevo fatta. Anche questa volta. Probabilmente non imparerò mai dai miei errori, nonostante dopo tutta l’ansia accumulata l’unica frase ripetuta “mai più. Lo giuro. La prossima volta verrò quattro ore prima. Mai più davvero”.

Voi ci credete? Chissà, forse ho ancora qualche storiella da raccontare in futuro. Per ora cerco di essere puntuale ai pasti, sennò non trovo niente a tavola! E voi? Come ve la cavate con gli orari e gli appuntamenti?

2 pensieri su “scusate il ritardo.

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